Non se ma quando



Uno dei miei professori universitari preferiti tormentava gli studenti con una massima: “non se ma quando. È sorprendente constatare quanto la scelta di una singola parola in una frase possa definire il rapporto interpersonale agli occhi del bambino, come un rapporto di potere fra superiore o inferiore, giudice o valutato.

Dalla mia esperienza professionale so che quando in una relazione assumo un ruolo di potere, il mio atteggiamento è accompagnato, di solito, da un’aurea di superiorità rispetto al mio interlocutore. In effetti sto dicendo che io sono quello che può decidere, perché ho più esperienza e ne capisco di più.

Credo che un esempio possa aiutarci a comprendere ancora meglio. Se durante il momento del pasto dico a un bambino "Se  finisci tutto quello che hai nel piatto, io ti do il dolce che hai chiesto” lascio intendere che io sono l’adulto che ha il potere di fare accadere qualcosa e che penso di essere qualificato per far ricadere la mia decisione sul mio interlocutore.

Non è forse il premiare un atto di supremazia bella e buona?

Tornando indietro nel tempo, ricorderemo tutti come ci siamo sentiti quando da bambini ci obbligavano a fare qualcosa che non volevamo. Ci siamo sentiti offesi e perfino arrabbiati nei confronti dei grandi, anche quando sospettavamo che “lo facessero per il nostro bene”. Se non fosse troppo scontato direi che la modificazione di un comportamento falliva perché gli adulti si ponevano in una posizione troppo centralizzata. 




Fino a qui ho cercato di spiegare gli svantaggi di una comunicazione di questo tipo. L’ho fatto bene? L’ho fatto male? Lo lascio decidere a voi.

Adesso proviamo a fare un passo in avanti e proviamo confrontare quel messaggio con quest’altro:


“Quando avrai finito le carote, arriverà il dolce che hai chiesto”


Tutta un’altra musica, direbbe Nick Hornby.

Ignorando per un momento il fatto che imporre a qualcuno di mangiare qualcosa produce alla lunga più danni che benefici, è ovvio come un messaggio di questo tipo non implichi più una relazione di forza adulto-bambino, ma simuli una diretta e naturale conseguenza di un comportamento. La particella "se" si è fatta da parte portandosi dietro anche il suo sotto-testo ricattatorio. Quello che a qualcuno potrebbe sembrare un cavillo linguistico degno di un scrittore di serie z, nasconde in realtà un’efficace strategia comunicativa.

Nella mia esperienza di genitore, oltre che di educatore, ho notato che i bambini esposti a questo tipo di comunicazione hanno mostrato meno ostilità nei miei confronti. “Non se ma quando” promuove la responsabilità verso se stessi e l’importanza di sapere accettare gli ostacoli inevitabili che la vita ci metterà davanti. Quante volte i nostri figli saranno costretti a fare qualcosa che non vogliono, per produrre un risultato che non dipende da altri, ma da loro stessi?

C’è un effetto importante anche per l’adulto. Usando una nuova forma di comunicazione attenta (e sincera), gli adulti cominceranno ad avvertire dentro di loro quella stessa serenità che questo tipo di messaggio comunica agli altri. Si sentiranno meno “impuntati” o “messi con le spalle al muro” poiché si percepiranno come portatori di un messaggio di crescita.


 Qualunque sia il comportamento che si vorrebbe ottenere, è bene ricordare che il ricatto predispone i bambini a una vita di insofferenza nei confronti, prima dei genitori e degli insegnanti, e, più avanti, contro le autorità con cui avranno a che fare. 

Aveva dunque ragione il mio professore ad assillare i suoi studenti con questa massima.

Se applicherete questa semplice formula… anzi: quando lo farete, lo scoprirete anche voi.

D.A.


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