Aspetta qui ma non perdermi di vista


Alpe Bianca, Agosto 2024



L'odore diverso dell'aria: era stato quello a darmi il benvenuto. L’avevo sentito anche prima, mentre guidavo con i finestrini abbassati, ma sul momento non ero stato in grado di soffermarmici. Ora l’avvertivo. Era la fragranza essenziale delle cose; il profumo delle erbe spontanee, e quello di milioni di animali al lavoro. E poi il silenzio. Il rumore del vento. In quel silenzio, ogni respiro diventava un paziente atto di ribellione contro il chiacchiericcio del mondo e dei pensieri. La montagna faceva anche questo, pensavo, imparavi a conviverci, o te ne andavi.

Eravamo arrivati e per alcuni secondi restammo immobili, respirando appena. Infine Olmo si lasciò scappare un sospiro e mi rivolse un grande sorriso.

«E’ davvero pazzurdo papà.»

Nei prati l'erba era alta e giù in basso tra le macchie di arbusti si sentiva scorrere un torrente che ogni tanto si intravedeva luccicare. C’era un vecchio impianto sciistico, con le sue torri di risalita ormai rose dalla ruggine e i pilastri incrostati di un albergo mai completato, tra le quali si erano infilati ogni genere di arbusti. Più in là quattro casupole disabitate. Sembravano fatte della stessa pietra grigia della montagna.

«Sono contento che ti piaccia. Ora scarichiamo gli zaini e troviamo un posto per sistemarci.»

«Laggiù!» esclamò Olmo indicando una formazione rocciosa che spuntava dalla montagna come un vecchio osso. Aveva riconosciuto il punto. Lì ci eravamo accampati l'anno scorso. Li mi ero accampato io, la prima volta che mi ero spinto fin lassù. Era un bel punto per piazzare le tenda. Un posto come un altro, mi verrebbe da aggiungere, né troppo perfettamente in piano, né troppo riparato. Osservare il cielo della notte, senza altre luci attorno, avrebbe rappresentato un momento importante per entrambi.

«Sei sicuro che non preferisci rimanere vicino alla macchina?» Chiesi lo stesso.

«Non lo so. Qui non c'è quella vista. Decidi tu papà.»

Sarei rimasto volentieri vicino alla macchina. Lì si che l'erba era soffice e livellata. Come se non bastasse avevo notato passando un bel cumulo di legna già pronta per il fuoco. Ma quando tirai giù lo zaino e i grilli si lamentarono nell'aria tiepida, notai che Olmo si era già avviato, verso l'abbraccio ruvido e un po' invadente dei giganti intorno.

L'abbraccio ruvido delle montagne. Avevo in testa tutte quelle parole e cercavo di farle tacere.

Non ci riuscivo.

Annotavo ciò che mi colpiva con la scrupolosità di un naturalista. Parole. Suggestioni. Ma anche tanti presentimenti. O cose che erano già state. Risposte, perlopiù. C'era una mandria di mucche al pascolo ma era così lontana che appena riuscivo a vederle: la osservavo dalla mia postazione privilegiata di essere razionale chiedendomi se fossi davvero io quello fortunato.

Non ero più sicuro di tante cose. Disabituato com'ero a quel silenzio.




Avanzammo nei prati per una centinaio di metri, finché sbucammo alle spalle della grande roccia. Sentivamo il torrente zampillare da qualche parte più in basso, ma non riuscivamo a vederlo. Aggirammo il macigno appiattendo gli steli con i nostri scarponcini e Olmo si fece scattare una foto con l'erba che “era più alta di lui”.

«Questa la faccio proprio vedere a mamma.» Disse con tono vivace.

«Ottima idea. Non crederà ai suoi occhi.»

Eravamo solo all'inizio della nostra solitaria. E io mi limitavo, come sapevo fare ormai da nove anni, ad assecondare i vari momenti che si susseguivano, come farebbe un discreto capitano al timone di una modesta imbarcazione. Non volevo più cambiare nulla. Il vento, la rotta: non siamo noi a deciderli. Noi possiamo solo limitarci ad ascoltare e a custodire, se siamo bravi, i sogni di cui siamo fatti.

Comunque ero sfinito. La camminata credo. Olmo invece sembrava ancora pieno di energie e di contagioso entusiasmo.

«Hai fame?» Chiesi.

«Un pochino.»

«Ti andrebbe un würstel?»

«Crudo?»

«Non abbiamo ancora legna per accendere il fuoco...»

«Va bene, ma non farmi una foto mentre mangio un würstel crudo perché mamma non vuole.»

Scoppiai a ridere poi dissi più seriamente: «giusto.»

E senza aggiungere una parola attesi paziente e un po' divertito che anche quel momento passasse.

E poi…

E poi ci fu che Olmo guardò il masso, mise via il cibo, e senza dire nulla cominciò una buffa scalata verso la sua sommità. La roccia non era propriamente un tiro del K2, se capite quello che voglio dire, ma aveva comunque pochi appigli disponibili e la sua risalita prevedeva, oltre che una discreta dimestichezza con le pareti scivolose, un'inattaccabile dose di coraggio e una ferrea motivazione. Mi domandavo che cosa avrebbe pensato Maslow, se gli avessi fatto notare che spesso i bisogni dei bambini sfuggono alla comprensione dei grandi e che è inutile arrovellarsi più di tanto: forse dobbiamo rassegnarci al fatto che non capiremo mai del tutto?

Adesso Olmo faceva finta di essere difficoltà e io di essere preoccupato per la sua incolumità. Mi ripeteva a memoria le battute di un famoso sketch di Aldo Giovanni e Giacomo. E io: «Devi farcela. Solo tu puoi puoi farcela. Concentrati. Trova un modo. Dipende da te.» E lui: «speriamo non sia il culo della moffetta!»

Alla fine gli presi i piedi e facendo un po' di leva riuscii a fargli guadagnare un appoggio sicuro, una sporgenza sulla parete che sembrava messa lì apposta per permettere ai bambini di arrivare fino in cima.

Eccolo. Adesso sì che mi sarebbe piaciuto scattargli una fotografia. Ma sapevo che il momento sarebbe passato se ci avessi provato, come certe frasi che ci sembrano chiare nel dormiveglia ma che svaniscono non appena apriamo gli occhi per prendere carta e penna. Tanto valeva lasciarlo andare. Era una lezione, quella, che la vita non aveva fatto che ripetermi, ma mi capitava ancora di dimenticarlo. Ogni tanto mi sentivo rinascere sotto la pelle il desiderio di fermare il tempo ed è allora che mi mettevo a rovistare nello zaino in cerca di una penna o di qualcosa che potesse lasciare un segno del mio passaggio.

Era partito tutto da lì, pensavo, da quelle rocce. Le prime pitture. Le prime incisioni. I primi ingenui tentativi di risalire verso il cielo e la comprensione ultima delle cose. Di ricongiungersi con il tutto di cui facevamo parte. Olmo non la sentiva ancora questa netta separazione, perlomeno: aveva appena cominciato ad avvertirla. E io non potevo fare a meno di smarrirmi dentro i suoi occhi spalancati, pieni di domande e di intelligenza.

«Adesso che cosa facciamo papà?»

«Non lo so,» ammisi. «Ma tra un'oretta farà buio e non si vedrà più nulla.»

«Oh no!»

Stupido, stupido, stupido!

«Non è un problema. Abbiamo le torce.»

«Le torce ci aiuteranno?»

«Sì. Ma possiamo anche dividerci i compiti.»

«Come abbiamo fatto l'anno scorso?»

«Esatto.»

«Se ci dividiamo i compiti sarà più facile?»

«Non credo. Ma faremo prima.»

«Va bene se io mi occupo della legna, papa?»

«Sì e io monto la tenda.»

«Va bene. Aspettami qui papà e non perdermi di vista.»

«Ok.»



Rimasto solo presi il tabacco dalla tasca e mi girai una sigaretta. Mentre fumavo spacchettai la tenda, stesi per terra il rivestimento interno e mi ci buttai sopra per assicurarmi che non ci fossero buche o sassi. Un paio di volte mi voltai verso il boschetto. Gli uccelli appostati tra i rami avevano smesso di cantare e ora si sentiva distintamente il suono inconfondibile di legnetti spezzati e l'acqua del torrente che rumoreggiava nelle piccole cascatelle. Più in là le montagne: pietrose e crivellate da frane. Ancora oltre una strada, e una piccola costruzione che tra poco avrebbe emanato un unico bagliore luminoso confondendosi e disperdendosi nella notte stellata.

Ero sdraiato di fianco guardando il bagliore sempre più debole della sigaretta. Ogni volta che tiravo la brace diventava incandescente e si smorzava di nuovo. Le ombre si stavano allungando, ma il cielo era ancora perfettamente azzurro. La notte sopraggiungeva piena di insidie. Ma i lupi non c'erano più.

C'era mancato davvero poco.





Olmo ritornò che avevo appena spento la sigaretta e finito di piantare il primo picchetto. Aveva le mani piene di ramoscelli alcuni così lunghi che si impigliavano nei ciuffi di erba e rischiavano di farlo inciampare.

«Allora?» Volli sapere. «Com'è andata nel bosco?»

«Bene. Grazie per avermelo chiesto. Ma una cosa non è andata bene. Sai il ponticello di sassi? Ecco adesso c'è tipo un… un cactus che punge.»

«Un cardo vorrai dire?»

«No, no era proprio un cactus. Perché non aveva i frutti.»

«Anche il cardo non li ha.»

«Sì invece.»

Ci pensai su. Considerando la mia competenza in materie di piante, ritenni più prudente lasciar cadere l'argomento.

Dopodiché Olmo gettò la legna per terra e si fermò a rovistare tra i sassi. Continuò a frugare nell'erba. Sembrava che stesse cercando di leggere ciò che c'era scritto sotto, ma non c'era un granché da vedere salvo alcuni pezzetti di carbone resi fragili dall'umidità di mille nevicate e di mille temporali.

«Che cosa hai trovato?»

«Non sono sicuro. Ma è possibile… sì insomma… è passato un anno da quando lo abbiamo acceso.»

Mi avvicinai. Quante probabilità c'erano che qualcuno si fosse accampato lì, a parte noi? Pochissime. Praticamente nessuna. E quante probabilità c'erano che qualcuno avesse acceso un fuoco proprio nel nostro stesso punto? Come se non bastasse tra i tizzoni carbonizzati spuntavano qua e là ciuffetti di erba e questo era senz'altro una prova che il fuoco era stato spento prima della fioritura primaverile.

Sollevai lo sguardo. Olmo mi guadava in attesa di un verdetto conclusivo. «Sì», sentenziai solennemente, «si tratta del nostro vecchio fuoco.»

«Lo sapevo! Lo sapevo! Secondo te si accenderà di nuovo?»

«Perché non dovrebbe?»

«Perché l'abbiamo spento facendoci la pipì sopra.»

Scoppiai a ridere: «Credo che farà una fiammata.»

«Diamo fuoco alla montagna allora!»

Il sole era quasi tramontato quando, finito di montare la tenda, ci incamminammo velocemente verso il famosissimo (e dibattutissimo) cactus. In linea d'aria non era molto distante dal punto in cui ci trovavamo, ma i dislivelli del prato rendevano la camminata molto faticosa.

«Hai visto che bestia della natura?» Mi disse Olmo indicando un fusto che spuntava sulla riva. Era proprio un cardo. Allungai una mano per esaminarlo e le sue spine mi fecero il solletico. Forse se la cavavano meglio con gli animali che con gli uomini.

«C'è l'hai un coltello?»

«No.»

«Allora come facciamo?»

«Potresti provare con un bastone.»

Olmo mi guardò, infilò la mano nell'erba e tirò su un ramo che sembrava l'ala scheletrica di un pipistrello.

«Attento! la regina delle lame è tornata!»

«Oh no! Mi toccherà difendermi.»

Prima che potessi dire qualcos'altro il ramo vibrò nell'aria, colpì il cardo alla base del fusto piegandolo irrimediabilmente.

«Bel colpo regina delle lame.»

«Meglio smammare adesso.»

«Sicuro che non vuoi buttarlo nel fiume?»

«Andiamocene, è meglio se ci leviamo da qui.»

Risalimmo velocemente il pendio seguendo il percorso di prima e Olmo mi parlò di Minecraft. Mi disse che per sconfiggere un Ender Dragon servivano le Endemic Perl, o qualcosa del genere. Io lo ascoltai e annuii palesando tutto il mio sincero interesse mentre migliaia di minuscole cavallette ci saltavano davanti ad ogni passo. I piccoli riflettori in cielo si sarebbero potuti accendere da un momento all'altro. Proseguivamo senza grande cautela nell'azzurro intenso del crepuscolo.



Più tardi, mentre aspettavamo che la carne cuocesse e le stelle riempissero la notte sempre più prossima, Olmo mi disse una frase che avrebbe segnato indelebilmente la nostra gita. La fiamma crepitava sprigionando spire di fumo che si disperdevano quasi istantaneamente. Quello che disse fu:

«Mi mancano i miei amici.»

Pazzesco come una frase di cinque parole, pronunciata da un bambino di otto anni (quasi nove ormai) fosse in grado di raccontare in maniera molto precisa quell'antico sentimento che pervade il viaggiatore che si avventura tra quelle montagne. Questo mi avrebbe dato la spunto per far sapere a mio figlio qualcosa di importante? C'era da scommetterci che lo avrei fatto, magari tirando in ballo la teoria secondo cui sentire la mancanza di qualcuno non è un sentimento totalmente negativo, perché ci restituisce l'importanza di ciò che siamo, di ciò che gli altri contano per noi.

Ma, spostando lo sguardo in un punto meno luminoso, ebbi la netta sensazione che questi ragionamenti non avrebbero avuto presa su un'anima per la prima volta sopraffatta dal mistero dell'esistenza.

Questa volta ero io a sentirmi impotente.

Poi, una favilla grossa come una cometa saettò davanti agli occhi umidi di Olmo, passò sopra e scomparve silenziosamente nel vuoto.

E le fiamme guizzavano bruciando le voragini del tempo: non solo legna dunque. Gettavano sulle tenebre il loro antico scudo di luce.




Finito di scrivere nell'Ottobre 2024,

giusto pochi giorni fa

Commenti

Post più popolari