PAROLE CHE CREANO (e liberano)

 

PAROLE CHE CREANO 

(e liberano)


La difficoltà di raccontarsi

Nel suo “consigli ad un giovane scrittore” Vincenzo Cerami1, sostiene che “la chiave di ogni linguaggio artistico è racchiusa nella parola evocare. Secondo lo sceneggiatore il compito dell’artista è quello di tirare fuori -ex (fuori) vocare (chiamare)- immagini o concetti dall’aldilà dell’immaginazione e di tradurla in un linguaggio accessibili a molti. Considerando questa promessa ci sembra opportuno affermare che la vera sfida consiste proprio nel restituire all’ascoltatore una parvenza di somiglianza con ciò che si vuole dire.

Non è semplice.

Per esempio Sofia, in una scuola primaria, dopo aver cercato di descrivere alla classe il luogo che aveva sognato sbotta esasperata: “Uffa non era proprio così!” La frustrazione per Sofia non è diversa da quel del celebre scrittore americano Stephen King quando scrive che le cose più importanti sono le più difficili da dire"2 E non è nemmeno tutto differente dall’ansia del foglio bianco sperimentata dai ragazzi durante una prova scritta.

Prima di allarmarsi – e magari correre a portare nostro figlio da uno psicologo – consideriamo che il linguaggio è un sistema chiuso di segni che può dare vita a fraintendimenti, ma che trae la propria forza espressiva proprio da questa sua sostanziale rigidità. Se diciamo che quella è una casa un ascoltatore non farà nessuna fatica a immaginarsela. Ma se volessimo descrivere quali sensazioni che quel luogo ci suscita allora dovremmo conoscere molto  bene il sistema di regole e di convenzioni proprie del linguaggio che stiamo adoperando.


Dare parole ai pensieri

La linguista e saggista Vera Gheno durante un suo seminario per parlare del linguaggio usò l’immagine molto efficace di una Maserati parcheggiata in un garage3. Spesso non ce ne accorgiamo, ma noi disponiamo di uno strumento molto sofisticato per comunicare agli altri il nostro mondo - e per raccontarlo a noi stessi, aggiungerebbe Demetrio - Perché non lo usiamo? Perché preferiamo tenerlo parcheggiato nel nostro parco macchine? 

È evidente che nella cabina di comando, ovunque si trovi, è partito un ordine dirompente. La questione è spinosa e ha risvolti politici. A scuola si è sempre andati per imparare e per insegnare, cioè per trasmettere un si sistema di conoscenze legato alle varie discipline. L'obiettivo della scuola è sempre stato quello di aiutare l’allievo a mettere insieme quel bagaglio di sapere e di sapienza da utilizzare nella vita. L’occorrente per prendere decisioni, valutare. Per essere capaci a ragionare autonomamente liberi da condizionamenti di tipo coercitivo. Nella scuola di adesso, invece sembra prioritario non tanto il sapere, ma il sapere essere con, il sapersi mettersi in relazione attraverso l’ascolto empatico e il riconoscimento dell’altro. Ma come può avvenire questo se non all’interno di un percorso che metta al centro la padronanza di uno strumento evoluto di comunicazione che permetta di parlarci?


Aiutare a comprendere gli eventi che ci circondano

L’attività di ricostruzione che la mente impone alla realtà oggettiva inizia con il processo percettivo. Dopo aver registrato un avvenimento noi lo dotiamo di un senso. Quando diciamo di aver visto una casa, per tornare all’esempio di poco fa, non ci limitiamo a indicare un edificio rettangolare, con un tetto a punta e abitato da individui di solito stretti da legami di parentela, ma di fatto comunichiamo un concetto in cui alle caratteristiche fisiche si associano altre qualità -ad esempio il fatto che la casa rappresenti o meno un luogo sicuro -. È quello che in psicologia sociale viene definito con la parola concetto. Senza i concetti, per dirla con Smith e Medin4 la vita mentale sarebbe caotica. Gli individui non sarebbero in grado di costruire e ri-costruire la realtà. Le persone hanno una molteplicità di schemi auto-appresi che possono riguardare eventi, situazioni, ma anche sequenze di azioni, dei veri e propri settaggi attraverso i quali i concetti immagazzinati vengono rappresentati. In tutto ciò è ancora una volta evidente di come il linguaggio, e la possibilità di potervi accedere liberi da condizionamenti, svolga un ruolo cruciale in questa negoziazione di senso degli avvenimenti che plasmano la nostra vita.

Riempendo le aule di Lim e svuotando il linguaggio da tutti quegli elementi che non rientrano nella categoria del “politicamente corretto” cominciamo finalmente a renderci conto che stiamo gettando le basi per una società per certi versi acefala fatta di sudditi ideali e di rarissime teste pensanti. Forse converrebbe ricordare il monito già espresso da George Orwell nel suo romanzo 1984. L’autore sosteneva la testi che totalitarismo e dissoluzione del linguaggio fossero fortemente interconnessi. Lo svuotamento sistemico della nostra lingua serve ad accaparrarsi il futuro!


Un progetto educativo basato sull’auto-educazione

In definitiva crediamo che ogni operatore sociale debba dotarsi di un vocabolario quanto più sconfinato e eterogeneo. La sfida è enorme perché mette al centro il percorso auto-educativo di ciascuno, basato sull’acquisizione di un’indipendenza intellettuale e creativa. Non ci sono scorciatoie. Coloro che reputano dannoso l'arricchimento personale e la necessità di mantenere uno sguardo aperto e introspettivo sul proprio lavoro, inseguono il mito di una pedagogia universale e alla fine illusoria, proprio perché ha perduto il suo legame vitale con l’incertezza. Solo così riusciremo ad offrire a Sofia nuove parole per raccontare i suoi sogni.


Daniele





1Vincenzo Cerami (1977), consigli a un giovane scrittore, Einaudi
2Stephen King (1982), stagioni diverse, Sperling&Kupfer
3Vera Gheno (2019) il Potere alle parole. Perché usarle meglio, Einaudi
4Smith E. , Medin D. L. (1981) Categories and concepts, Harvard Univerisity Press, Cambridge (MA)

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